Alle tragedie come quella di Corinaldo occorre accostarsi con molta delicatezza, perché la nostra attitudine tutta italiana a piangere dopo, a recriminare dopo, ad accertare le responsabilità dopo, si scontra con il dolore vivo di chi ha perduto un figlio, una madre, una moglie. Lo strazio per la morte di un caro merita sempre rispetto e il rispetto deve circondarsi di una buona dose di silenzio, perché non c’è parola che possa giustificare eventi del genere e solo il silenzio riesce a far sì che un dolore incontenibile trovi in qualche modo una collocazione nell’animo di chi ne è tragicamente colpito. Ora che su quella tragedia si stanno spegnendo i riflettori mediatici, la parola deve essere solo quella degli inquirenti a cui la società affida il compito di fare luce su una vicenda che ha ancora molti punti oscuri nei quali si annidano incuria, cialtroneria e un’arida indifferenza per la vita altrui.
Quel 7 dicembre anche io ho mandato mio figlio ad assistere allo spettacolo di Sfera Ebbasta nella discoteca Altromondo Studios di Rimini, nella prima parte di quella maledetta serata che si sarebbe poi trasformata in tragedia alla Lanterna Azzurra di Corinaldo. Due discoteche coinvolte, distanti un centinaio di chilometri l’una dall’altra: la morte ha deciso di colpire quella più a sud, ma l’aria fredda del suo gelido volo ha sfiorato anche quella di Rimini, lasciandoci tutti sconvolti. L’incontro con la morte altrui è il momento centrale dell’esistenza umana: è il momento in cui ci accorgiamo che tutto è fragile, imprevedibile, mutevole; è il momento in cui il concetto di caducità della vita umana perde la sua inafferrabile astrattezza e prende corpo, assumendo le tinte fosche del dramma. La tragedia di Corinaldo ha seminato tante vittime: prima di tutto le sei persone morte, poi i loro cari, poi le decine e decine di ragazzi che hanno visto la morte in faccia, infine i loro genitori che hanno rischiato di perdere il proprio figlio in una serata che doveva essere di festa.
Dietro quelle sei vite stroncate colgo inoltre il senso di una responsabilità collettiva che ci conduce nel terreno minato del “senno di poi”, che nega spazio ai benefici della previdenza e sempre si alimenta di un senso di postuma impotenza. Spero che la tragedia dia a tutti gli adulti coinvolti in questo dramma l’opportunità di ripensare alle proprie responsabilità verso i giovani: ai gestori di discoteche e agli organizzatori di eventi, perché ribaltino le loro priorità assegnando il primo posto non al guadagno, ma alla sicurezza; ai genitori, perché non abbassino mai il loro sguardo protettivo; ai cantanti, perché mandino messaggi non di rabbia distruttiva, ma di vita e di speranza. Tutti hanno degli obblighi verso i giovani, tutti devono sorvegliare sulla loro incolumità fisica e spirituale.
Solo da questa presa di coscienza può nascere un’autentica partecipazione al dolore per quelle assurde sei morti, per le vite spezzate di Daniele Pongetti, di Emma Fabini, di Asia Nasoni, di Benedetta Vitali, di Mattia Orlandi e di Eleonora Girolimini, la giovane mamma che non ha voluto lasciare da sola in discoteca la sua bambina e ha vegliato su di lei fino all’ultimo respiro. A loro e alle loro famiglie straziate voglio rivolgere il mio pensiero in occasione di queste festività, le prime dopo la tragedia, le più dolorose.
Non conosco personalmente il dolore per la morte di un figlio, ma nel corso degli anni ho perso quattro alunni in circostanze tragiche e ho visto disegnate sul volto dei loro genitori scarnificato dalle lacrime, tutte le gradazioni di un tormento infinito che non potrà mai trovare una plausibile giustificazione. Ai genitori dei cinque adolescenti morti a Corinaldo e a tutti i genitori colpiti da una tragedia simile, posso donare solo le profonde risonanze di un cuore di mamma che tenta invano di misurarsi, anche solo con una timorosa immaginazione, con il mistero assurdo della morte di un figlio, tanto più atroce in quanto sovverte l’ordine naturale degli eventi.
So invece cosa vuol dire perdere la mamma in giovanissima età e conosco personalmente tutti gli effetti devastanti della mancanza della figura materna all’interno di una famiglia. Quando mia mamma è morta ho sentito in ogni mia fibra una lacerazione cruenta, uno strappo mai più ricucito; ho visto nel volto di mio padre lo smarrimento di un uomo che si è trovato all’improvviso a dovere ricoprire due ruoli, segnato dal destino inesorabile di essere sempre imperfetto, sempre inadeguato, sempre solo. Io e mio fratello non abbiamo capito il suo dolore, lui non ha capito il nostro. Due pianeti diversi di sofferenza che non sono mai riusciti ad incrociare le loro orbite. Partendo da qui, dalla mia personale esperienza di dolore voglio augurare al marito e ai figli di Eleonora, una solidarietà profonda insieme alla speranza che nella loro famiglia, ora amputata di un membro vitale, i diversi dolori, quello filiale e quello coniugale, possano incontrarsi, rispettarsi ed esplorarsi a vicenda nel nome di colei che è riuscita a dare la vita anche nella morte.
Desidero donare ai familiari di Eleonora e a tutti coloro che hanno perso presto, troppo presto la moglie-mamma alcuni splendidi versi di Properzio, poeta dell’età augustea. Si tratta dell’elegia IV, 11 in cui il poeta immagina che Cornelia (figlia di Scribonia, già moglie di Ottaviano) dopo la sua prematura morte nel 16 a.C., si rivolga al marito Paolo e ai figli con toccanti raccomandazioni:
A te io affido i nostri figli, pegno del nostro amore:
è un’ansia che non si è consumata, ma spira viva ancora dalle mie ceneri.
Fai loro anche da madre, tu che sei padre:
la mia frotta di figli ora dovrai portarla tutta al tuo collo.
Quando li bacerai piangenti, aggiungi i baci della madre:
il peso di tutta la casa d’ora in poi graverà su te solo.
E se avrai voglia di piangere, fallo quando sono lontani:
quando verranno, con asciutte guance illudi i loro baci.
A tormentarti per me ti bastino, Paolo,
le notti e i sogni in cui crederai spesso di ravvisare il mio volto;
e quando nel segreto parlerai alla mia immagine,
parlami come s’io potessi risponderti.
Se però la casa vedrà un nuovo letto
e un’accorta matrigna si siederà nel mio talamo,
approvate, figli, e accettate le nozze del padre:
ella s’arrenderà vinta dalla vostra dolcezza;
non lodate troppo la madre: confrontata alla prima,
ella vedrà un’offesa nelle vostre incaute parole.
Ma se, nel ricordo di me, egli resterà fedele alla mia ombra
e penserà che di tanto siano degne le mie ceneri,
fin d’ora imparate a lenire la vecchiaia che per lui giungerà:
per l’uomo che è solo nessuna via resti aperta agli affanni.
Quanto di vita mi fu tolto, venga ad accrescere la vostra;
possa egli invecchiare sereno coi figli che gli ho dato.
Va tutto bene: mai, come madre, io ebbi a prendere il lutto;
alle mie esequie è venuta tutta la schiera dei miei figli.
(Properzio, Elegiae, IV, 11, vv. 73-97)
Io purtroppo ho conosciuto tardi questi versi, troppo tardi…