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La teologia solare come strumento di esaltazione politica del princeps

Tra il 1449 e il 1450, dopo la rottura con la corte estense, Basinio Basini si trasferisce da Ferrara a Rimini, trovando in Sigismondo Pandolfo Malatesta un nuovo munifico protettore. Alla corte malatestiana Basinio sviluppa e approfondisce interessi scientifici già maturati durante gli anni del soggiorno ferrarese. Nel 1455 è pronto per la pubblicazione gli Astronomicon libri, il noto poema didascalico in cui, accanto alla prevalente materia astronomica, figurano anche rapidi accenni ad argomenti di carattere più propriamente astrologico.

Nel Quattrocento l’astronomia e l’astrologia non hanno ancora nettamente distinto la propria sfera d’indagine: speculazioni matematiche e cognizioni filosofiche, analisi scientifica e studio delle influenze stellari continuano a procedere lungo percorsi paralleli implicandosi a vicenda, attuando una costante contaminazione dei loro diversi livelli conoscitivi e coagulando tutta una serie di competenze, compresa quella magica. Astrologia e magia sono intrinsecamente legate, in quanto entrambe concorrono a medesime modalità operative: persuadere le minacciose  forze della natura e formulare valide tecniche propiziatorie. Per questo la scienza magico-astrologica si configura prima di tutto come tecnica “retorica”, arte della parola e della persuasione, volta ad andare oltre la realtà fenomenica, alla ricerca di un’armonica unità uomo-cosmo.

Una cultura astronomico-astrologica di buon livello scientifico, talora persino raffinata, viene attivamente promossa anche dalla corte malatestiana. Nello sviluppo di questi interessi, che soprattutto sotto Sigismondo conoscono una rigogliosa fioritura, acquistano un’ineccepibile rilevanza gli stretti e fecondi rapporti tra Rimini e gli attigui centri di cultura: Ferrara, Bologna che nel Quattrocento è sede di un acceso dibattito sull’astrologia, infine Firenze, capitale del neoplatonismo.

Se pare eccessivo affermare che Basinio abbia composto l’Astronomicon solo “per compiacere le superstizioni astrologiche che Sigismondo aveva comuni con i suoi antenati e con la maggior parte dei signori di ventura”, come afferma Voigt, tuttavia è indiscutibile che l’opera vada collocata all’interno di una complessità di orientamenti e di percorsi intellettuali che s’intrecciano nell’ambiente culturale malatestiano.

 

Nell’ambito di questa complessa e affascinante relazione tra dottrina astronomico-astrologica e potere politico, sono da segnalare in particolar modo l’inizio e la fine del poema, due punti nevralgici dell’opera, in ossequio a norme retoriche tradizionali di questo genere letterario.

Proprio all’inizio del poema, dopo la consueta protasi distinta in propositio (indicazione del tema) e invocatio (invocazione alla Musa), si colloca la dedica a Sigismondo di cui poeta sottolinea la competenza scientifica. L’elogio assume poi i toni di una vera e propria apoteosi: dopo la morte anche Sigismondo entrerà nel novero degli dèi e avrà la sua sede eterna tra le stelle.

Frattanto, tardi quanto è possibile, salirai alle stelle

del cielo e un giorno sarai invocato nelle preghiere;

tuttavia, giacché sei entrato nel novero degli Dei, scegli

in quale parte del cielo, in quale regione tu debba rimanere

e già ora percorri con me le eteree contrade

del cielo e tendi benevolo le vele ai venti propizi.

(Astronomicon libri, I, vv. 24-29)

Verso la fine del poema, parlando del corso che il Sole compie annualmente attraverso i dodici segni dello Zodiaco, Basinio coglie l’occasione per innalzare un vero e proprio inno al maggior pianeta, invocato anche con appellativi di origine greca ed egizia. Con accorto trapasso il poeta intesse nuove lodi al suo signore: se il Sole risplende in un’epoca di tranquillità è merito di Sigismondo che con giustizia e lealtà assicura la pace all’Italia.  All’elogio di Sigismondo segue quello di suo fratello Malatesta Novello, signore di Cesena. Il poeta eleva poi una preghiera al Sole perché conceda ai due fratelli lunghi anni di vita. Un gravoso impegno attende Sigismondo: liberare il mondo cristiano dalla minaccia turca: è così motivato il passaggio all’accorata rappresentazione dei mali che affliggono Costantinopoli, l’antica splendida capitale dell’Impero Romano, caduta ora vergognosamente in mano di Maometto II.

È interessante notare che nell’organizzazione del cosmo celeste il poeta segue l’ordine caldaico dei pianeti per cui il Sole è medius tra Luna, Mercurio, Venere da una parte e Marte, Giove, Saturno dall’altra. Si tratta dell’ordine seguito anche da Cicerone nel De Divinatione, nel Somnium Scipionis e da Plinio nella Naturalis Historia. Il poeta dunque non accoglie la successione egizia (il Sole è inserito tra Luna e Venere) che si ritrova notoriamente nel Timeo platonico: preferisce infatti assegnare al maggior pianeta la quarta orbita e questa collocazione centrale e dominante crea già i presupposti di una sorta di teologia solare chiaramente espressa proprio nell’inno al Sole collocato quasi in chiusura del poema.

O Sole, ornamento celeste, o luminosissima luce del cielo,

padre degli uomini e degli Dei, con quale carme

e quale Musa mi dovrebbe ricordare le tue virtù? Tu dai origine

a tutto: insieme alla grande Luna tu ricevi i semi delle cose

e tutti li nutri con forza vivificante.

Tu benefico signore dell’etereo lume e creatore

della luce e grande reggitore dell’immenso cielo,

salve, padre degli uomini e luce eterna degli Dei

acconcia alla misera terra; la tua forza, o Febo, la tua potenza

allontana le malattie e rasserena il cielo rendendolo salubre.

Tu, piccolo fanciullo figlio di Latona, hai ucciso il Pitone nato dalla terra,

con l’arco dall’orribile suono, trafiggendolo con innumerevoli frecce.

Hai il volto ornato dal fresco fiore dell’eterna giovinezza. (…)

O Febo, tu dai erbe salutari ai mortali quando sono ammalati

e cingi le pie tempie con l’ingrato alloro.

Tu, o Febo, hai spogliato il superbo frigio della sua pelle;

tu insegui Niobe e i suoi figli; tu getti,

sulla riva dello Stige, Tizio acceso d’amore per tua madre. (…)

Tu ora guidi i lieti tempi di Sigismondo, a cui

l’Onnipotente ha concesso il sommo onore delle patrie armi,

ed egli ora tutta l’Italia, sotto le leggi della pace,

in suo potere conserva con giustizia e con grande lealtà. (…)

E il fratello, non meno insigne per onore,

Malatesta Novello, s’innalza sugli altri; e dopo aver anch’egli

deposto le armi, per primo, o bell’Apollo,

trasse fuori dalle grotte castalie le Muse, tuoi doni. (…)

Almeno questi protettori dell’Italia, o tu che sei il più grande degli Dei,

Febo, proteggi i pii fratelli e concedi loro lunghi anni.

(Astronomicon libri, II, vv. 406-458)

Si tratta di uno dei passi più interessanti del poema, soprattutto per la molteplicità di linee culturali che vi si intersecano: è possibile avvertire quella coesistenza singolare di teologia biblica e pagana che alimenterà tutto il filone neoplatonico della seconda metà del Quattrocento.

Se poi prestiamo attenzione al fatto che l’inno al Sole è immediatamente seguito dall’elogio di Sigismondo, subito si comprende come il misticismo neoplatonico divenga in qualche modo funzionale al motivo encomiastico e celebrativo. Il ricorso al simbolo solare serve a tessere l’apoteosi del Signore, conferendo al suo potere una sorta di autorità magica, secondo una prassi assai diffusa negli ambiti cortigiani. Quel processo di divinizzazione del principe che era già stata avviato nella parte iniziale del poema trova dunque qui la sua più compiuta realizzazione.

 

Estratto della pubblicazione in ARIMINUM – Rivista di storia, arte e cultura nella provincia di Rimini, Anno XXVII, N. 4 Luglio – Agosto 2020

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