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Ammettiamolo: ci siamo oramai assuefatti al panorama desolante di una società in cui si muovono, spesso impuniti, padri di famiglia che uccidono le mogli e i figli per vendetta, madri che uccidono le loro creature per liberarsi di un peso, figli che uccidono padri e madri per conquistare la libertà e impossessarsi dei loro soldi, fratelli che annientano fratelli per un’eredità, cugine che massacrano cugine per un ragazzo. I notiziari quotidiani ci consegnano il quadro apocalittico di una società che, dopo avere abdicato ai suoi valori di civile convivenza, di solidarietà e di amore, sta drammaticamente dilatando i confini di ciò che è orrido e moralmente raccapricciante. L’unico antidoto alle pericolose insidie della nostra indifferenza e al degrado di un’anima collettiva ammorbata da pulsioni distruttive che giungono a recidere persino i legami di sangue, consiste nel dare voce a quegli eroi silenziosi che riescono ancora a gettare fasci di luce nell’inquietante buio della ragione.

Voglio allora ricordare due fatti di cronaca, perché ci aiutino a ritrovare il “profumo buono” dell’umanità, almeno di quella che ha scelto di ripulirsi della sua maleodorante parte bestiale.

Andiamo a Casteldaccia, vicino a Palermo, dove nel ponte di Ognissanti la furia di una divinità fluviale stanca di essere profanata da un’aggressività edilizia senza più remore, ha seppellito nel fango una villetta e l’intera famiglia Giordano che vi abitava, tranne il padre a cui un albero ha offerto la possibilità di una tragica sopravvivenza. Federico, il figlio quindicenne, di fronte alla forza devastatrice di un fango indifferente all’età delle sue vittime, non ha esitato un attimo a rinunciare ad un suo possibile tentativo di fuga e ha scelto di prendere in braccio la sorellina Rachele di un anno tentando di consegnarla al padre per sottrarla ad una morte che poi ha inesorabilmente ghermito entrambi. Il sacrificio di Federico non è bastato a salvare Rachele, ma lo proietta di diritto nella sfera celeste degli eroi. La figura di Federico che si erge con la bambina in braccio ha la stessa icastica e luminosa evidenza di una raffigurazione eroica, lasciando nel nostro cuore le vibranti risonanze di una generosità intrepida.

Trasferiamo la parola mito anche al di là dei confini della nostra penisola per incontrare il trentasettenne cinese Wang Xianqiang che da 15 anni porta sulle spalle la madre paralizzata Tian, passando da una città all’altra in cerca di lavoro. Aveva solo 12 anni quando il padre morì e toccò a lui prendersi cura della madre malata. Da allora gira di città in città per trovare lavoretti saltuari, portandosi sulle spalle una madre che non può camminare. Di fronte ad una simile abnegazione che è la quintessenza dell’amore e della pietas filiale, subito si affaccia alla mente il ricordo di Enea, piegato sotto il peso del padre Anchise che egli aveva preso sulle spalle per fuggire da Troia in fiamme. Enea è fortunato, perché il suo nome è inciso nell’eternità del mito grazie a sublimi scrittori e a raffinati pittori, ma accanto a lui vivono eroi senza nome che hanno compiuto gesta straordinarie non nella sfera impenetrabile del mito, ma nella realtà quotidiana.

Pronunciando una causa in tribunale l’oratore ateniese Licurgo (IV secolo a.C.) racconta ai giudici la storia commovente di un figlio che durante un’eruzione dell’Etna, mise a a repentaglio la propria vita pur di salvare il padre. Sentiamola dalle sue parole:

Si racconta dunque che in Sicilia sgorgò una colata di fuoco; e dicono che questa si mosse sia verso il resto della regione sia anche verso una città di quelle che si trovano là. Gli altri dunque si misero in fuga cercando la propria salvezza, e invece uno dei giovani, vedendo il padre che era vecchio e non riusciva ad allontanarsi, ma era bloccato, avendolo sollevato lo portò via. Ma essendosi aggiunto il carico, credo, anche lui rimase bloccato. Quindi certo vale anche la pena ammirare la divinità, perché si comporta benevolmente con gli uomini buoni. Si dice infatti che il fuoco circondò tutt’intorno quel luogo e che si salvarono soltanto costoro, dai quali anche il luogo tuttora è chiamato “Luogo dei pii”; e invece quelli che avevano compiuto veloce la ritirata e che avevano abbandonato i propri genitori perirono tutti quanti. Cosicché bisogna che anche voi, o giudici, puniate costui, che è colpevole di tutti i più gravi reati. Infatti privò gli dei degli onori tradizionali, e abbandonò ai nemici i genitori, e non permise che i morti ricevessero le esequie previste dalle istituzioni. (Licurgo, Contro Leocrate, 95-97).

Licurgo e l’uomo contro cui sta pronunciando il suo discorso accusatorio appartenevano ad una società sostenuta da un sistema giuridico esemplare per cui abbandonare i genitori ai nemici e non permettere che i morti ricevessero le esequie previste dalle istituzioni erano dei reati.

In questi profondi valori risiede il senso salvifico della parola humanitas, l’unica che possa contrastare il disordine morale che ci circonda, l’unica che possa bloccare l’angosciante sensazione di una rovinosa caduta sempre più in basso.

 

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